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Ottobre, il mese della prevenzione del tumore al seno: la storia di Roberta


Roberta e Rossella erano amiche dalla più tenera età. Avevano condiviso tutte le emozioni adolescenziali, perse in chiacchierate infinite su temi della vita che per Roberta avevano sempre come perno centrale l’amore. Rossella era sempre stata più pragmatica. Era nata per correre contro il tempo, per gareggiare contro se stessa ogni giorno. Non riusciva a perdonarsi nulla. Era rigida nei suoi orari, nei suoi schemi. Le uniche pause che si concedeva erano dedicate a Roberta, era l’unica persona a cui non sapeva dire di no. Aveva preso quell’appuntamento per Roberta. Per starle vicino in un momento così delicato. Roberta era ipocondriaca perché la vita glielo aveva imposto. La vita le aveva strappato via l’amore più grande della sua vita. Sua madre, Veronica, era andata via dopo una lunga lotta contro ciò che ti cresce dentro e ti ruba giorno dopo giorno ogni speranza. Veronica aveva lottato con tutte le sue forze, ma quando aveva scoperto di essere malata, il cancro era già troppo potente, troppo esteso. Veronica era una donna forte che non si lasciava impaurire da nulla. Rossella per certi aspetti era molto simile a Veronica, forse era per questo che Roberta non riusciva a staccarsi da lei. Da quando Veronica era andata via, Roberta non trovava più pace. I sensi di colpa non smettevano di inseguirla, torturarla, fino a toglierle il sorriso, l’appetito e il sonno. Tutti i se e tutti ma sulla malattia della madre occupavano a pieno le sue giornate. Rossella era in quella sala d’attesa per provare a spazzare via quei sensi di colpa. La sua ipocondria la portava ad immaginare meningiti laddove sopraggiungeva una semplice influenza, infarti dopo un lieve mal di stomaco, ictus per una banale cefalea. Passava molte delle sue nottate insonni in pronto soccorso, tra gente che barcollava, sangue giovane che zampillava dopo un’ennesima rissa e qualche paziente vero. A volte si accontentava di un elettrocardiogramma, a volte riusciva a farsi dosare gli enzimi cardiaci, altre volte gli enzimi pancreatici. Era così brava a simulare i sintomi che portava il medico di turno ad indagare nella direzione della patologia che si era diagnosticata prima di giungere in pronto soccorso. Negli ultimi due mesi aveva collezionato sei codici verdi e addirittura due gialli, quando aveva il petto che le si stringeva nella morsa di un pugno ed una tachipnea incalzante. Roberta non amava consultare il suo medico curante perché lui non aveva i mezzi che lei riteneva opportuni per fare diagnosi e la rispediva a casa con un qualsiasi farmaco sintomatico, che il più delle volte Roberta non assumeva. Nelle sue notti in pronto soccorso aveva incontrato in triage più volte l’infermiera Barbara Veretti. La Veretti era prossima alla pensione ed oltre ad avere una grande esperienza professionale, aveva una spiccata sensibilità che non sempre le aveva reso la vita facile nel suo mestiere. I due codici gialli glieli aveva dati proprio la Veretti, quando aveva visto Roberta particolarmente scossa e agitata su una sediolina scricchiolante. Aveva subito letto negli occhi di Roberta la paura della morte e un dolore dell’animo che la torturava. Ad ogni accesso in pronto soccorso il medico di turno la liquidava con un codice bianco in uscita e qualche goccia di calmante. A Roberta non importava la diagnosi, in fondo sapeva di stare bene, ma tutto l’iter che la portava ad avere la diagnosi di buona salute, la rassicurava, le toglieva di dosso l’ombra della morte e il rantolo del respiro corto di Veronica che la inseguivano. Barbara aveva letto i referti dei vari accessi in pronto soccorso, fermi nella memoria del pc. Aveva avuto in fretta le risposte che cercava. Nell’anamnesi familiare era riportata la dicitura: “madre deceduta il 20/02 c.a. per carcinoma mammario”. Solo otto mesi. Ecco l’origine di tutti quei malesseri. In barba ad ogni regola, con gli estremi per una denuncia per violazione della privacy, Barbara aveva annotato su un post it l’indirizzo di Roberta.
Barbara aveva intenzione di coinvolgere Roberta in un’iniziativa alla quale, a suo parere, ogni donna non avrebbe dovuto rinunciare. L’immediatezza con la quale Barbara aveva telefonato a Laura, esplicitava tutta la sua istintività, accompagnata da un tocco di fine razionalità. Pur sapendo che Roberta non l’avrebbe riconosciuta, l’aveva vista un paio di volte ma era in stato quasi confusionale, aveva deciso di mandare Laura a farle visita.
Laura era una tirocinante che nel tempo libero non riusciva a staccarsi dal lavoro. Aveva acconsentito senza remore.
Il giorno seguente Laura si era presentata a casa di Roberta, come una qualsiasi addetta al volantinaggio della più comune catena di supermercati.
“Ciao, sono Laura. Ottobre è il mese della consapevolezza. Aiutaci nella nostra campagna per la prevenzione del tumore al seno.”
Quelle parola pronunciate con il suono metallico del citofono avevano aperto il cratere che Roberta tentava ogni giorno di soffocare. Con l’apparecchio ancora in mano, si sentiva immobilizzata dai suoi pensieri, nella speranza di trovare una risposta o semplicemente un perché a quella conversazione. Senza che nemmeno lei avesse il tempo di rendersene conto tutta la rabbia che aveva dentro, era esplosa. “Mi stai prendendo in giro? Perché mi cerchi? Io ho già pagato un conto salato per il mio essere donna. Non bussare mai più alla mia porta. La tua prevenzione a me non serve più. A me non serve più nulla. Non riporterai mai indietro mia madre. Sparisci, maledetta. Tu non sai cosa provo. Cosa ne sai tu della malattia? Tu non sai di cosa parli. Tu non sai quanto vorrei aver insistito. Lei è andata via per colpa mia.”
Laura era andata via senza proferir parola, dispiaciuta per quella reazione tanto carica di sentimento. Non aveva nemmeno lasciato, come suggerito da Barbara, il volantino dell’evento che si sarebbe svolto il sabato seguente in ospedale.
L’inveire di Roberta contro quella sconosciuta aveva mosso in lei qualche pedina inaspettata. La barriera di vetro che si era creata come scudo dal quale vedere il mondo, si era infranta.
Aveva pensato tutta la notte alla parole dette al citofono. Aveva parlato con un citofono. Aveva detto ad un citofono quello che non era riuscita ad ammettere a se stessa, quello che non aveva avuto il coraggio di confessare a nessuno, nemmeno alla sua amica Rossella.
Ripensava a quella conversazione fino a credere che fosse stata solo frutto della sua fantasia.
L’indomani, decisa a dimenticare il tutto, era andata a lavoro ma inaspettatamente aveva trovato un gesto di speranza sul vetro del portone di ingresso. Il citofono, la sconosciuta, le aveva lasciato un fiocco rosa. Sui due lembi del fiocco aveva scritto: “Scusa” “Mi dispiace”.
Era iniziato da poco il mese di ottobre, il mese della consapevolezza, il mese in cui ogni donna deve un abbraccio anche solo virtuale ad un’altra, il mese in cui chi ce l’ha fatta può portare una testimonianza di speranza, il mese in cui chi ha nel cuore il ricordo di qualcuno andato via troppo presto può salvare un’altra vita, il mese in cui quel nastro rosa può diventare una cima resistente per chi sta vivendo nell’oblio, il mese in cui una rete di donne può diventare un porto sicuro per tante altre.
Roberta adesso era convinta di non voler implodere nel dolore, di non voler sprecare quella occasione, di raccontare a qualcuno che con una diagnosi di stadio 4 aumenta la probabilità di morire, ma esistono gli stadi 3, 2, 1, in cui la probabilità di guarire aumenta sempre di più. Se preso in tempo, di cancro al seno si può guarire. Forse non avrebbe mai conosciuto il volto del citofono ma sapeva di doverle quella strana sensazione di serenità che non provava da troppo. Doveva restituire a qualche sconosciuto, al bene, quel gesto arrivato dal nulla da una sconosciuta.

di V.A.

link al post originale: MAMANET FOR I AM AWARE

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